| IL PUNTO I contributi firmati non rispecchiano necessariamente l'intero gruppo redazionale 
              
              
              
                Teoria  e prassi antiautoritaria n.3 marzo 2015 III° serie
 Continuiamo  a credere alla necessità dell’abolizione dello sfruttamento  dell'uomo sull'uomo, per un mondo di liberi ed uguali.
 di  Cristiano Valente    Quando  la sfacciataggine del potere, nel tentativo continuo di occultare le  reali contraddizioni e barbarie del sistema economico dominante,  tenta di diventare senso comune, il compito dei rivoluzionari,  ancorché più difficile e complicato, diventa fondamentale per  indicare una prospettiva di reale progresso sociale ed umano.  E’  il caso delle recenti affermazioni del primo Ministro, Matteo Renzi,  all’inaugurazione dell’anno accademico al Politecnico di Torino  il 18 febbraio 2015.  Con  faccia tosta da vero bullo il premier afferma: “Dobbiamo  avere il coraggio di dire che questa storia per cui in Italia non si  può affermare che ci sono diverse qualità fra le diverse università  è ridicola. Ci sono già Università di serie A e di serie B in  Italia e rifiutare la logica  del merito dentro le università e pensare che tutte siano brave  è quanto di  più antidemocratico vi possa essere”  E  continua: “Bisogna  saper riconoscere il  merito,  non possiamo pensare di portare tutte le 90 università nella  competizione globale, allora ci spazzeranno via tutti quanti”  E  in una logica, solo a Lui nota, prosegue: “In  democrazia se oggi perdi domani puoi vincere, non si tratta di  bloccare la maggioranza,(boh!!) ma di trovare idee che siano vincenti. Se nelle Università abbiamo  paura delle classifiche allora abbiamo paura della realtà”.  Nonostante  la logica sia in forte difetto quello che si può intuire da questi  ragionamenti è che il premier, a fronte della competizione economica  globale e alla situazione economica e sociale sottesa, adotta una  logica da campionato di calcio (paura  delle classifiche)  nella fattispecie riferita al mondo universitario e quindi alla  formazione ed  alla cultura, ma estendibile all’intera struttura  sociale.   Tutto  il chiacchiericcio, lievemente progressista, costituzionale,  banalmente socialdemocratico, buono per le rinate feste dell’Unità  e di qualche comizio paesano,  sulla necessità o possibilità di  pari opportunità e/o di mobilità sociale da garantire che fine ha  fatto ?  Se  nell’Università oggi si può anche perdere, usando il ragionamento  ed il lessico del premier, a secondo di che Università si frequenta  (di  serie A o di serie B)   significa che le possibilità di inserimento lavorativo e sociale  sono scarse o nulle a secondo dei corsi universitari che si  frequenta, andando ad ingrossare la schiera innumerevole dei  disoccupati, precari a vita; senza  scordarci  che oltre al diritto  ad una collocazione lavorativa e di un reddito decente esiste o  dovrebbe esistere il diritto al  sapere ed alla cultura.   Inoltre  in queste  illogiche perifrasi questa presunta logica salvifica del  merito inserita nell’intera società si scontra con il fatto che   la mobilità sociale nella realtà è una pura chimera e che sempre  più si riducono gli spazi anche per le classi sociali intermedie.   In  un precedente nostro intervento (Quando  si dice parlar chiaro- http://www.comunismolibertario.it/Punto  di ottobre 2  2010.html)  di riflessione sulla mobilità sociale in Italia  avevamo già  affrontato tale questione  prendendo spunto da una ricerca della  Fondazione Futuro Italia, il “pensatoio”  promosso da Luca  Corsero di Montezemolo.  Ne  riportiamo qualche stralcio: “Nello  studio ci si sofferma e si analizza quella che un tempo avremmo  chiamato correttamente selezione di classe, confermando non solo una  stratificazione di fatto della società in classi ma la  consapevolezza che l’appartenenza ad una classe sociale disagiata o  meno abbiente non permette di accedere a livelli di istruzione e  quindi di censo maggiori. Il  cuore dello studio, infatti, dimostra come la cosiddetta mobilità  sociale, cioè la possibilità di passaggio da una classe all’altra  sia sempre più difficoltoso e che la polarizzazione è il fenomeno  predominante: aumenta sempre più chi da una classe di appartenenza  sprofonda in quella più bassa e sempre meno sono chi riesce a fare  un salto sociale positivo.  
 Questa  polarità relativa alla mobilità sociale è consequenziale e  direttamente proporzionale con la polarità che ritroviamo a livello  di distribuzione del reddito. Non è affatto un presunto merito a  giustificare l’appartenenza sociale oppure a determinare le sorti e  gli sviluppi delle nuove generazioni, ma ancora la vecchia e solita  selezione di classe, cioè l’appartenenza o meno ad una classe  sociale più o meno agiata, che condiziona le prospettive delle  future generazioni. A tale conferma, nelle pagine successive dello  studio citato, troviamo: “L'Italia  …… negli ultimi anni ha visto un sostanziale declino del reddito  pro capite rispetto agli altri paesi, e ha visto aumentare  notevolmente le disuguaglianze, tanto che oggi è uno dei paesi con  maggiore disparità nella distribuzione dei redditi non solo in  Europa, ma in tutta la comunità dei paesi Ocse. Per  dare una misura più concreta e tangibile di cosa ciò significhi,  basta pensare che in Italia il 20% delle famiglie più ricche detiene  quasi il 40% del reddito totale nazionale, mentre il 20% delle  famiglie più povere percepisce redditi pari solo all'8% del reddito  totale…Secondo i dati Eurostat, che adotta una soglia di povertà  leggermente più elevata (intesa come reddito inferiore al 50% del  reddito mediano), in Italia il 25% dei bambini vive in famiglie  povere: il tasso più alto tra i paesi europei.” 
 “Il  25%, una cifra altissima. Questo significa che due milioni e mezzo di  bambini italiani vivono in condizioni di privazione materiale e,  molto spesso, sociale e culturale. Bambini che si porteranno dietro  uno svantaggio di cui non sono responsabili. Non a caso i test  scolastici dell'Ocse condotti sui quindicenni mostrano che il 67% dei  ragazzi italiani che conseguono cattivi risultati nei test provengono  da famiglie di basso status sociale. E sono sempre i figli delle  famiglie più povere e meno istruite che hanno la minore probabilità  di andare all'università e laurearsi, in Italia più che altrove.  L'80% dei laureati ha almeno un genitore laureato. E tali probabilità  non sono migliorate nel tempo, anzi, per i figli di diplomati la  probabilità di laurearsi è più bassa oggi di quanto non fosse una  generazione fa.” E  ancora a rendere più esplicito il concetto:  Tabella  2: Percentuale di figlio con la stessa laurea del padre (Fonte:  Almalaurea)   
 “…un  laureato in legge con un padre notaio o avvocato avrà ritorni ben  diversi da chi ha un padre che ha fatto la terza media; un farmacista  col padre farmacista potrà accedere ad opportunità migliori in  tempi più rapidi e così via. È per questo che in Italia si  trasmettono di generazione in generazione non solo i beni e i  redditi, ma anche le professioni. Il 44% degli architetti è figlio  di architetti, il 42% di avvocati e notai è figlio di avvocati e  notai, il 40% dei farmacisti è figlio di farmacisti e così via  (Tabella 2).” La  vulgata ipocritamente democratica e progressista che continua ad  indicare privo di senso l’orizzonte della necessità del  superamento dell’attuale struttura economica e sociale confidando  nelle sorti democratiche e progressive di uno sviluppo capitalistico  ininterrotto, viene smentita dai fatti. Le nuove generazioni stanno  peggio di prima. Il sogno distintivo di quella che in anni lontani  definimmo l’utopia riformista viene inficiato da questi semplici  dati.”  Tornando  ad oggi ed alle affermazioni del Presidente del Consiglio c’è da  dire che oltre alla sfrontatezza ed alla falsità delle affermazioni  che vengono dette, c’è una consapevolezza che rende il tutto, se  possibile,  ancor più amaro ed indigesto. Non  saranno i figli del premier ad andare in una Università di serie B  ma i nostri figli. Non  saranno i figli del premier ad andare a lavorare nelle fattorie in  Australia o nei ristoranti a Londra, ma i nostri figli. Non  saranno i figli del premier ad andare a lavorare nelle cooperative  sociali con salari di 7/800 euro al mese, ma i nostri figli. Non  saranno i figli del premier precari per l’intera vita  a cui non  sarà data neanche la possibilità di  raggiungere una degna pensione  per la loro vecchiaia, ma i nostri figli.  Infine  non saranno i figli del premier ad andare a morire in qualche guerra  in Libia, o in un'altra parte del mondo, ma i nostri figli.  Ciò  che occorre rilanciare con forza e determinazione è una nuova  battaglia egualitaria che permei tutte le rivendicazioni sociali e  politiche, da quelle sindacali a quelle dei cosiddetti diritti  universali. A tale proposito riportiamo alcune affermazioni di un  nostro contributo sull’egualitarismo e contro  la meritocrazia (Quaderni  di “Difesa Sindacale” n.1-  http://www.difesasindacale.it/Quaderno  n. 1.pdf “Dal  primo angolo di visuale il ragionamento è molto semplice e risulta  facile individuare la matrice culturale dell’egualitarismo e del  merito. L’egualitarismo non nega che la natura ci generi tutti  diseguali; nega che sia compito della società quello di  cristallizzare, anzi di approfondire, il solco di queste differenze.  L’essere umano si consorzia in società per ottenere un surplus di  energia dall’unione di più individui, cercando di ottenere da  ognuno quanto egli può fornire e restituendo a tutti quanto da soli  non potrebbero mai ottenere.   Chiunque  faccia parte del consorzio umano ottiene da questa consociazione un  vantaggio, per quanto grandi possano essere le proprie individuali  potenzialità: senza il contributo collettivo dei meno dotati la sua  lotta contro l’ambiente naturale sarebbe necessariamente perdente.  Ne  consegue che l’egualitarismo non è una benevola concessione dei  più dotati a coloro che meno lo sono, ma il derivato dell’ovvia  constatazione che il prodotto di un sistema sociale non è la somma  pura e semplice dell’apporto dei singoli, ma il concretizzarsi di  un’azione collettiva che beneficia dello sforzo di ognuno. Esso è,  quindi, la semplice conseguenza di una visione solidaristica  dell’umano consorziarsi.  Questa  considerazione apre il campo alla riflessione su cosa sia il merito.  Mentre l’egualitarismo è oggettivamente applicabile e  controllabile, il merito necessita di una valutazione per essere  individuato; ed una valutazione, in quanto tale, non è mai oggettiva  (altrimenti parleremmo di “misurazione” e necessiteremmo di  un’unità di misura universalmente riconosciuta) e si presenta il  problema di quali siano i soggetti preposti ad effettuare questa  valutazione e di quali parametri essi adoperino.   Per  quanto ci si sia sforzati non è stato possibile rintracciare un  metodo universalmente condivisibile per individuare i meritevoli ed  i risultati sono oggi più che mai impietosamente sotto gli occhi di  tutti.  In  economia non sono certo i più socialmente proficui quelli che  emergono, ma coloro che meno scrupoli nutrono, quelli disposti a  farsi largo sgomitando più degli altri, gli individui dotati del più  massiccio strato di peluria sullo stomaco (a meno che non siano i  privilegiati che ereditano una posizione di preminenza, senza troppi  sforzi personali).   La  mancanza di ogni etica pubblica nella gestione della finanza ha  generato la peggiore crisi economica degli ultimi ottanta anni ed il  perpetuarsi dei metodi dei soliti “furbi” impedisce ogni idea di  fuoriuscita da essa..  Se  ciò corrisponda o meno all’individuazione del merito è facile  giudicare. In politica si fa strada con due sole possibilità: il  denaro e la lunga marcia attraverso gli apparati. Nel primo caso  (nessun candidato alla presidenza degli USA può nemmeno lontanamente  pensare di essere eletto senza un più che consistente appoggio  finanziario) si torna al punto precedente.   Nel  secondo ciò che fa premio non è la capacità, ma la fedeltà. E  questo spiega il triste spettacolo di una classe dirigente mediocre,  che ormai siede nei posti di comando di gran parte dei paesi;  personale grigio, senza quella fantasia, quella facoltà di cogliere  i momenti favorevoli, quella forza intuitiva che pieghi la strategia  alla tattica quando si renda necessario, che sole fanno il vero  politico di razza.   Cosa  dire poi del luogo in cui topicamente dovrebbe rifulgere il merito: l’università.   Pochi  ricercatori, immensamente dotati, riescono effettivamente a farsi  strada nel mondo accademico. Per tutti gli altri è necessario  trovarsi un protettore, il cui potere è più importante dei titoli  dello sponsorizzato. Da qui origina il nepotismo che alligna  massicciamente nei concorsi universitari e la “fuga dei cervelli”  che caratterizza il nostro paese, che esporta conoscenza negli altri  che non ne pagano la costosa preparazione.   Per  non parlare del sistema anglosassone, dove poche università  prestigiose sfornano classe dirigente e quadri culturali su base  rigorosamente censitaria, con il richiamo, ancora una volta, al  successo esclusivamente economico poco sopra trattato.   La  meritocrazia, quindi, difficilmente premia i meritevoli. Questi  spesso esplicano la propria attività utile a tutti senza particolari  prebende; altrimenti difficilmente si spiegherebbe il fenomeno di  miglia di ricercatori e scienziati che studiano e producono risultati  e innovazione a fronte di stipendi sicuramente onorevoli, ma non  certo da favola, adeguati cioè al loro livello di “merito”, se  questo dovesse essere veramente essere il metro di paragone.   Un  sistema meritocratico favorisce la competizione tra individui e  premia quelli che più sono spregiudicati nei confronti degli altri; e se l’egualitarismo può indurre qualcuno ad adagiarsi sulle  sicurezze che esso fornisce, ma resta un metodo solidaristico che può  essere temperato da un controllo collettivo, se collettivo è il  godimento dei prodotti, viceversa il merito stimola la lotta tra i  singoli, allarga i solchi creati dalla natura, ed in ultima analisi  premia chi è socialmente più dannoso.  Tutto  quanto detto sinora potrebbe essere puramente teorico e scontrarsi  con dati reali che ci raccontino di una storia sindacale costellata  di successi sulla strada della diversificazione salariale e viceversa  perdente quando la lotta abbia imboccato la strada del “livellamento  egualitaristico”.  La  lezione della storia è invece esattamente il contrario.  Noi  siamo contro la competizione tra i lavoratori, nella società e nella  vita. Siamo  anche contro il merito e la sua distorta conseguenza, la  meritocrazia.   Siamo  contrari perché non siamo liberali ma comunisti anarchici e non  proponiamo la competizione tra esseri umani ma la solidarietà e, in  subordine, il pareggio; continuiamo a credere alla necessità  dell’abolizione dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, per un  mondo di liberi ed uguali là dove il lavoro manuale assuma la  medesima dignità e importanza di quello intellettuale, là dove non  vi siano più differenze tra sessi, razze e credi politici e  religiosi, perché siamo convinti che gli esseri umani siano tutti  uguali, e che le differenze nelle quali sono relegati non  costituiscano una storica necessità, ma una prerogativa della  società capitalistica e della conseguente divisione in classi  dell’umanità.” 
 19/02/2015 
 
 
 |